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18 Marzo 2024

La bellezza dell'amore che salva da “dentro”

In questo tempo di Quaresima don Pietro Sacchi fdp ci invita a riflettere su una realtà troppo spesso accantonata o dimenticata qual è quella del carcere.

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Stiamo camminando in direzione Pasqua e la Quaresima fa riflettere, tra rinunce ed atteggiamenti che convengono a religiosi e fedeli, destinati inevitabilmente a sprofondare nelle sabbie mobili delle colombe ai canditi e maxi-uova di Pasqua da lotteria parrocchiale. Sicuramente ci rifileranno ancora certe riflessioni “profonde” da cui speriamo ci salvi la semplicità, oppure saggezze del tipo: “vogliamo passare dal giovedì santo alla Pasqua skippando il venerdì”, anche se devo ammettere, che in testa alla classifica c’è il Buon Ladrone: “sapeva fare così bene il suo mestiere che all’ultimo gli frega il Paradiso…”.  Tutti tristi in Chiesa finché la liturgia si tinge di viola e poi, vai con le candeline da Veglia!

Esiste un luogo però dove il viola non è colorato e coinvolge fino alle viscere i vari “ladroni”. Vent’anni fa varcai per la prima volta le soglie del carcere, era la Casa Circondariale di Velletri. Eccitato e intimidito, sentii una stretta al cuore nel chiudersi delle prime cancellate entrando in quell’Istituto di massima sicurezza. Lì scoprii che esiste una società nella società, dove la parola Penitenza è meno carica, ma solo di parole. Essa si riduce a “Pena” e raramente dura solo 40 giorni. Nell’entrarvi intuii “altre liturgie”, l’olfatto impattò subito violentemente con gli odori forti che aleggiano i corridoi di ogni istituto penitenziario: caffè e sigarette. Un detenuto di Alessandria diceva sempre: «senza un po’ di caffè e senza fumare qui, esplode tutto!». Capii nell’assidua frequentazione di più Istituti Penitenziari, cosa fosse davvero la reclusione, la privazione della libertà, il senso di impotenza e la frustrazione nel gestire da dentro i problemi della famiglia e in modo particolare dei figli. Nessuno “lasciava la frutta” come fioretto, bastavano i loro vissuti intrisi di umiliazione e vergogna bisognosi di trovare un paio d’occhi capaci di raggiungere la persona, oltre metri di pregiudizio. Quella conferma che il buon ladrone trovò nella profondità delle parole di Gesù nonostante fosse emaciato dai colpi e segnato dalle ferite. Se così non accade, le ferite acquistano un’altra valenza. L’impotenza ed il malfunzionamento della macchina carceraria trasformano gli istituti penitenziari in vere e proprie fucine di devianza. Come accade a “Johnny”, cantato da Gué ed Enzo Avitabile. Il rapper milanese e lo storico cantautore napoletano narrano di un novello detenuto, il cui percorso di svezzamento parte da un’aggressione nella doccia della cella. "Maleducazione", racconta un’emancipazione negativa, la “scuola fatta dentro” che forma il pivello, restituendolo alla società un delinquente: «Quando Johnny è uscito aveva un’altra faccia, un’altra stazza, rappresentava una minaccia. Ad aspettarlo gente che non ha mai visto, riverito e idolatrato come Gesù Cristo” (Maleducazione, Gué Pequeno ft. E. Avitabile). Capii strada facendo quanto servissero ulteriori strumenti dentro e fuori, in grado di catturare cuori e coscienze alla stregua del Vangelo (e non dispensando teorie su di esso) con una bellezza rigenerante capace di scatenare nella persona la ricerca della verità, la propria verità identitaria, incline a rivelarsi nella sua dignità più alta: “Ad Immagine e Somiglianza” (Gn. 1,26). Non numeri e comma, ma nomi, volti e storie. In carcere c’è tantissima solidarietà e non solo delinquenza. Come aiutarli a non cedere nella causa-effetto che spinge alla scuola della “maleducazione”?

In un racconto magistrale di Stephen King, “Le Ali della Libertà”, si narra di Andy, detenuto modello che, violando il regolamento, dall’ufficio del Direttore, suona in filodiffusione la “Canzonetta sull’aria” di Mozart. Regala così, un momento di estasi liberatoria a tutti i detenuti del Penitenziario attraverso altoparlanti normalmente destinati ad annunciare la pesantezza della pena, dando conferma che qualsiasi forma di bellezza capace di toccare l’anima, salva dal nulla. Penso sia questa la vera esperienza del buon Ladrone che ci attende il Venerdì Santo, facendone il giorno più affascinante del Triduo: l’esperienza dell’Amore che salva ed é capace di rispondere ai bisogni che gridano dal profondo dell’anima (cf. Sal 130). Questo ho visto negli anni, in laboratori teatrali, di decorazione, cineforum, canto, vendemmie e produzione vinicola per i percorsi in esterno: “luoghi altri” non giudicanti né pregiudicanti, dove prender contatto con la propria anima, col proprio mondo emotivo ed affettivo, con il proprio corpo, il proprio sguardo, la propria voce, incontrando lo sguardo ed il corpo degli altri, insieme a giovani studenti che invito a condividere questi progetti integrandoli con la loro presenza. Fino ad arrivare, in alcuni casi, ad un “nuovo fuori” dove percorsi lavorativi permettono di raggiungere la libertà definitiva. Insomma, in quaresima, l’esperienza del carcere mi ricorda che risorgere è possibile solo se quell’Amore che salva ti segna concretamente nella carne, nell’intimo, e dandoti del "tu" attraverso l’esperienza della croce, sussurra: «Oggi sarai con me in Paradiso» (Lc. 23,43).

 

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