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13 Aprile 2024

Portare Dio tra i detenuti (VIDEO)

Don Pietro Sacchi, sacerdote orionino a Voghera (PV), è da anni impegnato nell'ascolto e nell'aiuto delle persone in carcere.

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Il carcere è un mondo popolato da “un'umanità ferita, ma, nel contempo, bisognosa di redenzione”, come dice Papa Francesco. L’Opera don Orione in diverse parti del mondo si è messa in ascolto di questa umanità, delle persone detenute e delle loro famiglie; lo ha fatto in Albania, in Venezuela, concentrandosi in modo particolare sulle carceri minorili, e anche in Italia, con un sacerdote, don Pietro Sacchi, che ormai da venti anni frequenta questo mondo e ha realizzato tantissime iniziative a favore delle persone private delle libertà personali.

«Il carcere – ricorda don Sacchi – l’ho incontrato per la prima volta quando ero ancora all’inizio del mio cammino, nel 2004, durante l’anno di postulato. Mi trovavo a Velletri e dovendo scegliere un’iniziativa di apostolato in affinità col carisma orionino, che mi proiettasse nel Vangelo concreto, a contatto col mondo della carità, decisi di fare un'esperienza in carcere. Iniziando, toccai con mano e da vicino qual era la dimensione ministeriale in carcere, sia per quanto riguardava il nostro impegno, sia per quanto riguardava il cappellano. Inizialmente, il mio compito era proprio di accompagnare quest’ultimo nel fare catechismo, ma notai presto una cosa molto interessante, cioè che alle persone che incontravo di fare catechismo gli interessava fino a un certo punto, o meglio: non volevano fare un percorso di fede indotto con i classici canoni del catechismo e della formazione, ma volevano di più essere coinvolte, trascinate. Trovai così un linguaggio che era il giusto compromesso tra il loro vissuto ferito, il bisogno di sperare e quel che di forte e rivitalizzante c'è veramente nel Vangelo. A partire da quello, nel corso degli anni ho iniziato a chiedermi di cosa realmente avessero fame e quale fosse il modo giusto per coinvolgerli, per portare alla loro attenzione tematiche che gli facevano bene. Tanto che negli ultimi anni a Velletri feci delle lezioni che sulla carta erano di catechismo, ma poi diventavano quasi dei comizi, con i detenuti prendevano la parola e parlavano della vita, della politica, dei loro figli... mi accorsi allora di quanto uno spazio di parola libero, in cui percepivano la dignità dell'ascolto, facesse loro bene. In questo modo, trovavo la strada giusta anche per arrivare alla questione della fede, perché l'uomo che soffre trova Dio solo se nel suo soffrire trova delle risposte, se gli racconti che Dio è amore, che è gioia».

Dopo il suo trasferimento a Pavia, dove don Sacchi divenne responsabile dell’oratorio in una parrocchia che era anche quella di riferimento per il carcere, riprese quell’esperienza vissuta a Velletri per avviare un nuovo e stimolante progetto: «Il mio interagire quotidiano con i ragazzi – ricorda – mi ha stimolato un’idea bellissima: ho iniziato a portare dei gruppi di giovani in carcere e, utilizzando come mezzo discipline quali il teatro, l'arte, i cineforum, ho fatto sì che si stimolassero discussioni e incontri con chi era all’interno, permettendo così di grattare nello stigma che definiva i detenuti solo con i loro reati e trovare la persona che c'era sotto tutto quel pregiudizio». Questo rapporto tra i giovani e i detenuti ha dato risultati molto soddisfacenti, che don Sacchi vive con grande entusiasmo ancora oggi, a Voghera: «È nata un'associazione con i primi studenti che facevano gli esperimenti con me, che si chiama Terre di mezzo, e siamo riusciti con il tempo anche a coinvolgere la pubblica istruzione, quindi le scuole. Oggi tutti gli anni facciamo la vendemmia con 5 o 6 detenuti aiutati dai ragazzi, circa 50 o 60 che si alternano in gruppi da 12. In questo contesto ogni venerdì poi dedichiamo degli incontri alla formazione sulla Costituzione. Ritengo questo incontro fondamentale, perché sappiamo che in mezzo a quei giovani ci saranno gli avvocati di domani, i magistrati di domani, ma anche i genitori di domani. E anche i detenuti ne traggono grandi benefici, perché si riattiva la loro paternità, si ricordano di chi erano, possono mostrarsi per la persona che sono, anche perché il giovane è molto meno giudicante degli adulti e quindi ci va di cuore nelle cose, ha questo grande potere».

L’impegno di don Sacchi verso i detenuti e il mondo del carcere non si ferma a questi incontri con i giovani, anzi. Uno degli aspetti su cui si concentra in modo particolare è quello che lui chiama “la pena nella pena”, cioè il momento dell’uscita dalla prigione: «Quando un detenuto viene scarcerato, o esce magari per un permesso premio o un permesso di lavoro, lo stigma sociale lo segue ovunque, le persone pensano che ormai non ci si può fidare di lui, il lavoro non si trova, un affitto neanche… C'è quindi un discorso che andrebbe fatto prima di tutto a livelli di coscienza sociale (ed ecco che ritorna il coinvolgimento dei giovani) e poi di accompagnamento ai detenuti stessi nel momento dell'uscita dal carcere. Qui a Voghera abbiamo strutturato molti progetti, soprattutto nell'ambito del diritto al lavoro in esterno retribuiti. Perché uscire fuori a lavorare richiede sponde importanti, sia per aggrapparsi, sia per superare appunto lo stigma. Se questi appigli mancano, si ritorna sulla strada che si conosce, quella della delinquenza, e quando si innesca la recidiva non si esce più da quel meccanismo mentale. E questo è controproducente per tutti. Perciò noi cerchiamo di aiutarli, e soprattutto di fare in modo che chi li incontra scopra la persona che c’è dietro il detenuto, che impari a chiamarlo per nome». Non è questo, però, l’unico problema per chi esce dal carcere. C’è n’è uno anche molto più pratico: «Si parla poco di questo aspetto – spiega don Sacchi – ma se nel periodo di detenzione alla persona è scaduto il documento, quando esce e perde quindi la residenza in carcere non ha modo di rinnovarlo. E senza documenti non si hanno diritti, nemmeno quelli sanitari. È un’invisibilità sociale gravissima e della quale nessuno si occupa. Anche su questo aspetto noi con alcuni volontari che sono avvocati, o che lavorano in Caf e Patronati, proviamo a fare qualcosa, ma senza dubbio servirebbe un intervento sistematico per risolvere questo dramma sociale».

Tante iniziative, quindi, per aiutare chi è in carcere, sempre nel solco dell’insegnamento di don Orione: «L'orioninità – dice don Sacchi – è il Vangelo. Don Orione andava a contatto con delle categorie umane, vedendo Cristo in queste persone, e inventandosi di tutto per portare Dio in quelle vite. Non si può quindi stereotipare l'orioninità, perché la potenza di don Orione è la fame e la sete di queste anime, è saper vedere l'immagine di Dio nell'ultimo degli uomini. Io quindi quando agisco mi chiedo: cosa farebbe don Orione? E quanta follia metterebbe in campo? Non c'è niente di più orionino di un cuore capace di divorare queste occasioni per portare Cristo. E in un carcere, dove i due terzi circa non sono cattolici, o hai un fuoco che ti brucia dentro e che ti fa portare, anche nella tua pochezza, quella meraviglia nei cuori affamati d'amore, e poi gli racconti che quello lì è Dio, oppure si rischia di insegnare solo un Dio teorico e teorizzato, ma io lì non vedo don Orione».

Tutto questo si potrebbe tradurre, secondo don Sacchi, anche in opere concrete: «Una progettualità fisica sulle opere sarebbe fondamentale, soprattutto per sostenere i cappellani, che sono sempre persone fantastiche, di grande umanità, con uno sguardo e un ascolto diverso dalla norma e innamorati del carcere, ma che spesso solo con le loro forze non ce la fanno ad affrontare tutte le richieste di aiuto che ricevono. Un’opera di carità che vada in questa direzione sarebbe la risposta a un problema contemporaneo molto importante. A Voghera abbiamo, ad esempio, due appartamenti che offriamo ai detenuti in permesso e ai loro figli, per i quali raccogliamo fondi e paghiamo l'affitto. Pensare a un'opera di carità di questo tipo, ma più grande, sarebbe un'opera evangelica in funzione di un problema reale. Questo farebbe don Orione, ne sono più che convinto. Il carcere è un alveare di situazioni che vanno incontrare una ad una, e quando si aiutano i detenuti si aiutano anche le loro famiglie».