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23 Aprile 2025

La condivisione di una stessa fiamma: Le “periferie” geografiche ed esistenziali

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Le “periferie” di cui parla Papa Francesco sono anzitutto quelle geografiche, dei popoli non ancora evangelizzati e di quanti si trovano a vivere fisicamente lontani dal cuore della comunità ecclesiale. Ma sono anche quelle “esistenziali”, più vicine a noi, che fanno riferimento a vasti settori di fedeli ormai totalmente disinteressati non soltanto alla Chiesa, ma alla stessa fede cristiana.

Sono queste le “periferie” più difficili, in riferimento a coloro che si sono allontanati dalla fede per le vicissitudini della loro vita o per la testimonianza poco credibile resa loro dai credenti. Accanto a costoro, tra le “periferie dei lontani” va compreso anche chi con precisa consapevolezza ha rifiutato l’orizzonte della fede, ritenendolo ingenuo, scomodo o alienante. Se consideriamo l’alta percentuale di quanti ordinariamente non frequentano più la vita sacramentale, il campionario delle “periferie esistenziali” si presenterà facilmente ai nostri occhi in tutta la sua varietà e complessità.

Portare la buona novella a queste “periferie” è il compito della Chiesa “in uscita”, che non si accontenta del piccolo e del vicino, ma avverte l’urgenza di condividere il più possibile con tutti il dono gratuitamente ricevuto dall’alto con entusiasmo e con generosità. Don Orione espresse tale pensiero all’insegna della carità:

«Noi dobbiamo chiedere a Dio non una scintilla di carità, come dice l’Imitazione di Cristo, ma una fornace di carità da infiammare noi e da rinnovellare il freddo e gelido mondo, con l’aiuto e per la grazia che ci darà il Signore. Avremo un grande rinnovamento cattolico, se avremo una grande carità. Dobbiamo però cominciare ad esercitarla oggi tra di noi: a coltivarla nel seno dei nostri Istituti, che debbono essere veri cenacoli di carità. Nemo dat, quod non habet: non daremo alle anime fiamme di vita, foco e luce di carità, se prima, non ne saremo accesi noi e molto accesi. La carità dev’essere il nostro slancio e il nostro ardore, la nostra vita: noi siamo i garibaldini della carità di Gesù Cristo. Niente più mi spiace che adoperare quel nome in cosa sì santa sì pura, sì divina, ma lo faccio onde più esprimermi. La causa di Dio e della Sua Chiesa non si serve che con una grande carità di vita e di opere: non penetreremo le coscienze, non convertiremo la gioventù, non i popoli trarremo alla Chiesa, senza una grande carità e un vero sacrificio di noi, nella carità di Cristo. V’è una corruzione nella società spaventosa; vi è una ignoranza di Dio spaventosa: vi è un materialismo, un odio spaventoso: sola la carità potrà ancora condurre a Dio i cuori e le popolazioni e salvarle. Ma ogni moto non giova, o poco giova se non ci impadroniremo della gioventù, delle scuole e della stampa: bisogna prepararci con grande amore di Dio e riempirci il petto e le vene della carità di Gesù Cristo; diversamente faremo nulla: apriremo un solco profondo se avremo una profonda carità. Che avrebbe mai fatto San Paolo senza la carità? Che avrebbe fatto San Vincenzo de’ Paoli senza la carità? Che avrebbe mai fatto San Francesco Saverio senza la carità? Che avrebbe fatto il Cottolengo, senza la carità? Che avrebbe fatto il ven. Don Bosco? Nulla, nulla, nulla, senza la carità!»[1]

Nel pensiero “missionario” di Francesco la Chiesa deve essere "sempre in uscita", altrimenti si ammala. Ed è meglio “una Chiesa incidentata”, che una Chiesa “ammalata da chiusura”: «È vero che quando uno esce c’è il pericolo di un incidente. Ma è meglio una Chiesa incidentata, per uscire, per annunziare il Vangelo, che una Chiesa ammalata da chiusura. Dio esce sempre, perché è Padre, perché ama. La Chiesa deve fare lo stesso: sempre in uscita».[2]

Circa l’immagine di questa “Chiesa in uscita”, così cara a Papa Francesco, ecco il pensiero carismatico di San Luigi Orione (1930):

«Ci vuole un illuminato spirito di intraprendenza, se no certe opere non si fanno; la vostra diventa una stasi, non è più vita di apostolato, ma è lenta morte o fossilizzazione. Avanti, dunque! Non si potrà far tutto in un giorno, ma non bisogna morire né in casa, né in sacrestia: fuori di sacrestia! Non perdere d’occhio mai né la Chiesa, né la sacrestia, anzi il cuore deve essere là, la vita là dove è l’ostia; ma, con le debite cautele, bisogna che vi buttiate a un lavoro che non sia più solo il lavoro che fate in Chiesa. Via, caro Don Mario, via ogni pusillanimità! Lungi da noi ogni pusillanimità, sotto la quale si nasconde, talora, la pigrizia o la piccolezza dell’animo. La pusillanimità è contraria allo spirito del nostro Istituto che è ardito e magnanimo.[3]

Ecco Gesù che viene: usciamogli incontro! Uscire, uscire da noi, per vivere di Lui, per vivere Lui. Via, via da noi quanto non è Dio, quanto non è amore e olocausto d’amore agli uomini nostri fratelli. E tutto in hynnis et canticis, con gioia, in alta perfetta letizia, con dilatazione di cuore e magnanimità. Dio si ama, si serve, si vive così».[4]

In alcuni appunti, forse usati come traccia per una conferenza o un corso di Esercizi spirituali, il fondatore scrive:

«I figli della Divina Provvidenza. I preti dei poveri. I missionari del popolo. I Missionari della strada. Una parola limpida e calda... Voi siete quelle pie donne, delle quali è detto nel Vangelo che seguivano Gesù e gli prestavano i servizi necessari (Marco XV). Servire i poveri è servire Gesù. È Nostro Signore che avremo a tavola. Servire Gesù Cristo particolarmente nei nostri fratelli più infelici: quando un nuovo malato entra: Gesù entra, Gesù chiama; andiamo incontro a Gesù».[5] [Continua…]


[1] Scritti 20,77.

[2] Angelus, 20 settembre 2020.

[3] Scritti 32,245.

[4] Scritti 57,121.

[5] Scritti 87,112.