
Papa Francesco ha incontrato i Superiori generali della vita consacrata nella mattinata del 29 novembre 2013, nella sala del Sinodo in Vaticano.
L'incontro è durato tre ore, a porte chiuse e nella discrezione. Il Papa ha raccontato le sue esperienze, ha dato linee e incoraggiamenti per svolgere il compito di animatori della vita consacrata. Anche la pausa caffé è stata occasione per avvicinarsi al Papa, per salutarlo. Erano presenti i circa 120 Superiori generali di Istituti di vita consacrata partecipanti all’82.ma Assemblea generale dell’Unione Superiori Generali (USG), che ha avuto per tema proprio “Papa Francesco, sfida per la leadership evangelica”. Ecco un ampio resoconto, curato da Padre Antonio Spadaro SJ.
«SVEGLIATE IL MONDO!»[1]
Colloquio di Papa Francesco con i Superiori Generali.
Città del Vaticano, 29 novembre 2013
Ore 9,25. Aula nuova del Sinodo in Vaticano
Quando Papa Francesco parla «a braccio» e dialoga, il suo discorso ha un ritmo ad «ondate» progressive che va seguito con cura perché si nutre della relazione viva con i suoi interlocutori. Chi prende nota deve prestare attenzione non solamente ai contenuti, ma alle dinamiche di relazione che si creano. Così è avvenuto nel colloquio che il Santo Padre ha concesso all’Unione Superiori Generali (Usg) degli Istituti religiosi maschili alla fine della loro 82a Assemblea Generale[2]. Seduto in mezzo a loro, ho preso nota quindi del dialogo. Cercherò qui di esprimere come possibile la ricchezza dei contenuti, mantenendo il tono del colloquio vivo e spontaneo durato tre ore. A metà, un intervallo di mezz’ora, nel quale il Papa si è soffermato a salutare personalmente i Superiori Generali, prendendo anche un mate in un clima di relax e distensione.
In realtà, i Superiori avevano chiesto solamente un breve incontro di saluto, ma il Pontefice ha voluto dedicare al colloquio l’intera mattinata. Ha però deciso di non tenere alcun discorso, e di non ascoltare, a sua volta, relazioni già preparate: ha voluto un colloquio franco e libero, fatto di domande e risposte.
Sono le 9,25, e l’arrivo dei fotografi annuncia il suo ingresso imminente nell’Aula nuova del Sinodo in Vaticano, dove lo attendono circa 120 Superiori.
I religiosi: peccatori e profeti
Accolto da un applauso, il Santo Padre si siede alle 9,30 in punto, guarda l’orologio e si congratula per la «puntualità svizzera». Tutti ridono: il Papa in questo modo ha voluto salutare fr. Mauro Jòhri, ministro generale dei Frati minori cappuccini, di nazionalità svizzera, appena eletto vicepresidente della stessa Unione.
Dopo le brevi parole di saluto del presidente, p. Adolfo Nicolas, preposito generale dei gesuiti, e del segretario generale, p. David Glen- day, comboniano, Papa Francesco con semplicità ha ringraziato cordialmente per l’invito e ha subito ascoltato un primo gruppo di domande. I religiosi hanno innanzitutto interrogato il Papa sull’identità e la missione dei religiosi: «Che cosa si aspetta dalla vita consacrata? Che cosa chiede? Se lei fosse al nostro posto, come accoglierebbe il suo appello ad andare nelle periferie, a vivere il Vangelo sine glossa, la profezia evangelica? Che cosa si sentirebbe chiamato a fare?». E ancora: «Dove si dovrebbe porre l’accento oggi? Quali sono le priorità?».
Papa Francesco ha cominciato col dire che anche lui è un religioso, e che dunque conosce per esperienza ciò di cui si parla[3]. L’ultimo Papa religioso è stato il camaldolese Gregorio XVI, eletto nel 1831. Quindi ha fatto riferimento esplicito a Benedetto XVI: «Lui ha detto che la Chiesa cresce per testimonianza, non per proselitismo. La testimonianza che può attirare veramente è quella legata ad atteggiamenti che non sono gli abituali: la generosità, il distacco, il sacrificio, il dimenticarsi di sé per occuparsi degli altri. E quella la testimonianza, il “martirio” della vita religiosa. E per la gente è un “segnale di allarme”. I religiosi, con la loro vita, dicono alla gente: “Che cosa sta succedendo?”, queste persone mi dicono qualcosa! Queste persone vanno al di là dell’orizzonte mondano! Ecco — ha proseguito il Papa, citando Benedetto XVI —, la vita religiosa deve permettere la crescita della Chiesa per la via dell’attrazione»[4].
Dunque «La Chiesa deve essere attrattiva. Svegliate il mondo! Siate testimoni di un modo diverso di fare, di agire, di vivere! E possibile vivere diversamente in questo mondo. Stiamo parlando di uno sguardo escatologico, dei valori del Regno incarnati qui, su questa terra. Si tratta di lasciare tutto per seguire il Signore. No, non voglio dire “radicale”. La radicalità evangelica non è solamente dei religiosi: è richiesta a tutti. Ma i religiosi seguono il Signore in maniera speciale, in modo profetico. Io mi attendo da voi questa testimonianza. I religiosi devono essere uomini e donne capaci di svegliare il mondo».
Papa Francesco è tornato in maniera circolare sui concetti espressi, approfondendoli progressivamente. Ha proseguito infatti: «Dovete essere veramente testimoni di un modo diverso di fare e di comportarvi. Ma nella vita è difficile che tutto sia chiaro, preciso, disegnato in maniera netta. La vita è complessa, è fatta di grazia e di peccato. Se uno non pecca, non è uomo. Tutti sbagliamo e dobbiamo riconoscere la nostra debolezza. Un religioso che si riconosce debole e peccatore non contraddice la testimonianza che è chiamato a dare, ma anzi la rafforza, e questo fa bene a tutti. Ciò che mi aspetto è dunque la testimonianza. Desidero dai religiosi questa testimonianza speciale».
Evitare il fondamentalismo e illuminare il futuro
Proseguendo nel rispondere alle prime domande, Papa Francesco ha toccato uno dei punti chiave del suo pensiero: «Io sono convinto di una cosa: i grandi cambiamenti della storia si sono realizzati quando la realtà è stata vista non dal centro, ma dalla periferia. E una questione ermeneutica: si comprende la realtà solamente se la si guarda dalla periferia, e non se il nostro sguardo è posto in un centro equidistante da tutto. Per capire davvero la realtà, dobbiamo spostarci dalla posizione centrale di calma e tranquillità e dirigerci verso la zona periferica[5]. Stare in periferia aiuta a vedere e capire meglio, a fare un’analisi più corretta della realtà, rifuggendo dal centralismo e da approcci ideologici».
Dunque: «Non serve essere al centro di una sfera. Per capire ci dobbiamo “scollocare”, vedere la realtà da più punti di vista differenti[6]. Dobbiamo abituarci a pensare. Faccio spesso rifermento a una lettera del padre Pedro Arrupe, che è stato Generale della Compagnia di Gesù. Era una lettera indirizzata ai Centros de Investigación y Acción Social (CIAS). In questa lettera p. Arrupe parlava della povertà e diceva che è necessario un tempo di contatto reale con i poveri. Per me questo è davvero importante: bisogna conoscere la realtà per esperienza, dedicare un tempo per andare in periferia per conoscere davvero la realtà e il vissuto della gente. Se questo non avviene, allora ecco che si corre il rischio di essere astratti ideologi o fondamentalisti, e questo non è sano»[7].
Il Papa si sofferma quindi su un caso concreto, l’apostolato giovanile: «Chi lavora con i giovani non può fermarsi a dire cose troppo ordinate e strutturate come un trattato, perché queste cose scivolano addosso ai ragazzi. C’è bisogno di un nuovo linguaggio, di un nuovo modo di dire le cose. Oggi Dio ci chiede questo: di uscire dal nido che ci contiene per essere inviati. Chi poi vive la sua consacrazione in clausura vive questa tensione interiore nella preghiera perché il Vangelo possa crescere. Il compimento del mandato evangelico “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura” (Mc 16,15) si può realizzare con questa chiave ermeneutica spostata nelle periferie esistenziali e geografiche. E il modo più concreto di imitare Gesù, che è andato verso tutte le periferie. Gesù è andato verso tutti, proprio tutti. Io non mi sentirei affatto inquieto andando verso la periferia: non sentitevi inquieti nel rivolgervi a chiunque».
Allora, qual è la priorità della vita consacrata? Ha risposto il Papa: «La profezia del Regno, che non è negoziabile. L’accento deve cadere nell’essere profeti, e non nel giocare ad esserlo. Naturalmente il demonio ci presenta le sue tentazioni, e questa è una di quelle: giocare a fare i profeti senza esserlo, assumerne gli atteggiamenti. Ma non si può giocare in queste cose. Io stesso ho visto cose molto tristi al riguardo. No: i religiosi e le religiose sono uomini e donne che illuminano il futuro».
Papa Francesco, nella sua intervista alla Civiltà Cattolica, aveva chiaramente affermato che i religiosi sono chiamati a una vita profetica. Questa è la loro peculiarità: «essere profeti che testimoniano come Gesù è vissuto su questa terra, e che annunciano come il Regno di Dio sarà nella sua perfezione. Mai un religioso deve rinunciare alla profezia. [...] Pensiamo a ciò che hanno fatto tanti grandi santi monaci, religiosi e religiose, sin da sant’Antonio abate. Essere profeti a volte può significare fare ruido, non so come dire... La profezia fa rumore, chiasso, qualcuno dice “casino”. Ma in realtà il suo carisma è quello di essere lievito: la profezia annuncia lo spirito del Vangelo»[8].
E allora, come essere profeti vivendo il proprio carisma religioso particolare? Per Papa Francesco occorre «rafforzare ciò che è istituzionale nella vita consacrata e non confondere l’istituto con l’opera apostolica. Il primo resta, la seconda passa». Prosegue il Papa: «Il carisma resta, è forte, l’opera passa. A volte si confonde Istituto e opera. L’Istituto è creativo, cerca sempre nuovi cammini. Così anche le periferie cambiano e se ne può fare un elenco sempre differente».
«Il carisma non è una bottiglia di acqua distillata»
A questo punto le domande poste hanno avuto come centro il tema delle vocazioni. Si sta verificando un cambiamento profondo nella geografia umana della Chiesa e quindi anche degli Istituti religiosi. Vanno crescendo le vocazioni in Africa e Asia, che da sole esprimono la maggioranza del loro numero totale. Tutto questo pone sfide serie: l’inculturazione del carisma, il discernimento vocazionale e la selezione dei candidati, la sfida del dialogo interreligioso, la ricerca di una rappresentatività più equa negli organi di governo degli Istituti e, più in generale, nella struttura della Chiesa. Viene dunque chiesto al Papa qualche orientamento in merito a questa situazione.
Papa Francesco si dice ben consapevole che è cambiata moltissimo la geografia della vita consacrata e che «tutte le culture hanno la capacità di essere chiamate dal Signore, che è libero di suscitare più vocazioni da una parte o dall’altra. Che cosa vuole il Signore con le vocazioni che ci manda dalle Chiese più giovani? Non lo so dire. Ma mi pongo la domanda. Dobbiamo porcela. C’è una volontà del Signore in tutto questo. Ci sono Chiese che stanno dando frutti nuovi. Forse una volta non erano così feconde, ma adesso lo sono. Ciò obbliga naturalmente a ripensare l’inculturazione del carisma. Il carisma è uno, ma, come diceva sant’Ignazio, bisogna viverlo secondo i luoghi, i tempi e le persone. Il carisma non è una bottiglia di acqua distillata. Bisogna viverlo con energia, rileggendolo anche culturalmente. Ma così c’è il rischio di sbagliare, direte, di commettere errori. E rischioso. Certo, certo: faremo sempre degli errori, non ci sono dubbi. Ma questo non deve frenarci, perché c’è il rischio di fare errori maggiori. Infatti dobbiamo sempre chiedere perdono e guardare con molta vergogna agli insuccessi apostolici che sono stati causati dalla mancanza di coraggio. Pensiamo, ad esempio, alle intuizioni pionieristiche di Matteo Ricci che ai suoi tempi sono state lasciate cadere»[9].
«Non sto parlando di adattamento folkloristico ai costumi — ha proseguito il Papa —: è una questione di mentalità, di modo di pensare. Ad esempio: ci sono popoli che pensano in maniera più concreta che astratta, o che almeno hanno un tipo di astrazione diversa da quella occidentale. Io stesso ho vissuto da provinciale dei gesuiti in Argentina questa differenza. Ricordo quanta fatica facevamo reciprocamente nel dialogo, anche su cose semplici della vita quotidiana, con un fratello gesuita che proveniva dalla zona dei guaranì, i quali hanno sviluppato un pensiero molto concreto. Bisogna vivere con coraggio e confrontarsi con queste sfide anche su temi importanti. Insomma, non posso formare una persona come religioso senza prendere in considerazione la sua vita, la sua esperienza, la sua mentalità e il suo contesto culturale. Questo è il cammino. Questo hanno fatto i grandi religiosi missionari. Mi vengono in mente le straordinarie avventure del gesuita spagnolo Segundo Llorente, tenace e contemplativo missionario in Alaska, che non solo ha imparato la lingua, ma che ha appreso il pensiero concreto della sua gente[10]. Inculturare il carisma, dunque, è fonda- mentale, e questo non significa mai relativizzarlo. Non dobbiamo rendere il carisma rigido e uniforme. Quando noi uniformiamo le nostre culture, allora uccidiamo il carisma», ha concluso con decisione il Pontefice, indicando la necessità di «introdurre nel governo centrale degli Ordini e delle Congregazioni persone di varie culture, che esprimano modi diversi di vivere il carisma».
Papa Francesco è certamente consapevole dei rischi, anche in termini di «reclutamento vocazionale», delle Chiese più giovani. Ha ricordato, tra l’altro, che nel 1994, nel contesto del Sinodo ordinario sulla vita consacrata e la sua missione, i vescovi filippini denunciarono la «tratta delle novizie», cioè il massiccio arrivo di Congregazioni straniere che aprivano case nell’arcipelago allo scopo di reclutare vocazioni da trapiantare in Europa. «Bisogna tenere gli occhi aperti su queste situazioni», ha detto il Papa.
Si è quindi soffermato anche sulla vocazione dei fratelli e, più in generale, dei religiosi che non sono sacerdoti. Ha lamentato che non si sia sviluppata oggi una consapevolezza adeguata di questa vocazione specifica. Ha accennato a un documento ad essa relativo che non è mai apparso, e che forse andrebbe ripreso per portarlo a compimento e avviare una riflessione più adeguata. A questo punto il Papa ha rivolto lo sguardo al Cardinal Joào Braz de Aviz, prefetto della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, e al segretario della stessa Congregazione, mons. José Rodrìguez Carballo, che erano presenti nell’assemblea, invitandoli a considerare la questione. Ha concluso: «Non credo affatto che la crisi della vocazione dei religiosi non sacerdoti sia un segno dei tempi per dire che questa vocazione è finita. Dobbiamo semmai capire che cosa Dio ci sta chiedendo». Rispondendo poi a una domanda sulla questione dei religiosi fratelli come superiori in ordini clericali, il Papa ha risposto che si tratta di un tema canonico che deve essere affrontato a quel livello.
«La formazione è un’opera artigianale, non poliziesca»
Papa Francesco quindi ascolta alcune domande sul tema della formazione. Risponde subito dando indicazioni di priorità: «La formazione dei candidati è fondamentale. I pilastri della formazione sono quattro: spirituale, intellettuale, comunitario e apostolico. Il fantasma da combattere è l’immagine della vita religiosa intesa come rifugio e consolazione davanti a un mondo “esterno” difficile e complesso. I quattro pilastri devono interagire sin dal primo giorno di ingresso in noviziato, e non devono essere strutturati in sequenza. Ci deve essere un’interazione».
Il Papa è consapevole del fatto che il problema della formazione oggi non è facile da affrontare: «La cultura odierna è molto più ricca e conflittuale di quella vissuta da noi, al nostro tempo, anni fa. La nostra cultura era più semplice e ordinata. Oggi l’inculturazione richiede un atteggiamento diverso. Ad esempio: non si risolvono i problemi semplicemente proibendo di fare questo o quello. Serve tanto dialogo, tanto confronto. Per evitare i problemi, in alcune case di formazione, i giovani stringono i denti, cercano di non commettere errori evidenti, di stare alle regole facendo molti sorrisi, in attesa che un giorno gli si dica: “Bene, hai finito la formazione”. Questa è ipocrisia frutto di clericalismo, che è uno dei mali più terribili. L’ho già detto ai vescovi del Consiglio Episcopale Latinoamericano (Celam) quest’estate a Rio de Janeiro: bisogna sconfiggere questa tendenza al clericalismo anche nelle case di formazione e nei seminari. Io lo riassumo in un consiglio che una volta ho ricevuto da giovane: “Se vuoi andare avanti, pensa chiaramente e parla oscuramente”. Era un chiaro invito all’ipocrisia. Bisogna evitarla a ogni costo». A Rio, infatti, il Papa aveva identificato nel clericalismo una delle cause della «mancanza di maturità e di libertà cristiana» del popolo di Dio[11].
Quindi, «Se il seminario è troppo grande, bisogna dividerlo in comunità con formatori capaci di seguire davvero le persone. Il dialogo deve essere serio, senza paura, sincero. E bisogna considerare che il linguaggio dei giovani in formazione oggi è diverso da quello di chi li ha preceduti: viviamo un cambiamento d’epoca. La formazione è un’opera artigianale, non poliziesca. Dobbiamo formare il cuore. Altrimenti formiamo piccoli mostri. E poi questi piccoli mostri formano il popolo di Dio. Questo mi fa venire davvero la pelle d’oca».
Il Papa ha poi insistito sul fatto che la formazione deve essere orientata non solamente alla crescita personale, ma alla sua prospettiva finale: il popolo di Dio. Formando le persone, bisogna pensare a coloro ai quali saranno inviati: «Bisogna sempre pensare ai fedeli, al popolo fedele di Dio. Bisogna formare persone che siano testimoni della risurrezione di Gesù. Il formatore deve pensare che la persona in formazione sarà chiamata a curare il popolo di Dio. Bisogna sempre pensare nel popolo di Dio, dentro di esso. Pensiamo a quei religiosi che hanno il cuore acido come l’aceto: non sono fatti per il popolo. Insomma: non dobbiamo formare amministratori, gestori, ma padri, fratelli, compagni di cammino».
Papa Francesco, infine, ha voluto mettere in evidenza un rischio ulteriore: «se un giovane che è stato invitato a uscire da un Istituto religioso a causa di problemi di formazione e per motivi seri, viene poi accettato in un seminario, questo è un altro grosso problema. Non sto parlando di persone che si riconoscono peccatori: tutti siamo peccatori, ma non tutti siamo corrotti. Si accettino i peccatori, ma non i corrotti». E qui il Papa ha ricordato la grande decisione di Benedetto XVI nell’affrontare i casi di abuso: «ci deve servire da esempio per avere il coraggio di assumere la formazione personale come sfida seria avendo in mente sempre il popolo di Dio».
Vivere la fraternità «accarezzando i conflitti»
Il Sinodo sulla Nuova Evangelizzazione aveva chiesto ai religiosi di essere testimoni della forza umanizzante del Vangelo attraverso la vita fraterna. Prendendo spunto da questo appello, sono state poste al Papa alcune domande circa la vita fraterna dei religiosi: «Come tenere insieme gli impegni della missione e quelli della vita comunitaria? Come lottare contro la tendenza all’individualismo? Come comportarsi con i fratelli in difficoltà o che vivono o creano conflitti? Come coniugare giusta risposta e misericordia davanti a casi difficili?».
Papa Francesco ha ricordato che il giorno precedente aveva ricevuto la visita del priore di Taizé, Frère Alois: «A Taizé ci sono monaci cattolici, calvinisti, luterani... tutti vivono veramente una vita di fraternità. Sono un polo apostolico impressionante per i giovani. La fraternità ha una forza di convocazione enorme. Le malattie della fraternità, d’altra parte, hanno una forza che distrugge. La tentazione contro la fraternità è ciò che più impedisce un cammino nella vita consacrata. La tendenza individualistica è in fondo un modo per non soffrire la fraternità. San Giovanni Berchmans[12] diceva che per lui la penitenza maggiore era proprio la vita comunitaria. A volte è difficile vivere la fraternità, ma, se non la si vive, non si è fecondi. Il lavoro, anche quello “apostolico”, può diventare una fuga dalla vita fraterna. Se una persona non riesce a vivere la fraternità, non può vivere la vita religiosa».
«La fraternità religiosa — ha proseguito il Papa —, pur con tutte le differenze possibili, è un’esperienza di amore che va oltre i conflitti. I conflitti comunitari sono inevitabili: in un certo senso devono esistere, se la comunità vive davvero rapporti sinceri e leali. Questa è la vita. Pensare a una comunità senza fratelli che vivono in difficoltà non ha senso, e non fa bene. Se in una comunità non si soffrono conflitti, vuol dire che manca qualcosa. La realtà dice che in tutte le famiglie e in tutti i gruppi umani c’è conflitto. E il conflitto va assunto: non deve essere ignorato. Se coperto, esso crea una pressione e poi esplode. Una vita senza conflitti non è vita».
Il valore in gioco è alto. Sappiamo che uno dei princìpi fonda- mentali di Papa Francesco è che «l’unità è superiore al conflitto. Le sue parole ai religiosi sono da leggere alla luce della Evangelii gaudium (nn. 226-230), lì dove si chiede di «accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (n. 227). Bisogna ricordare che per Bergoglio la realizzazione personale non è mai un’impresa esclusivamente individuale, ma collettiva, comunitaria[13]. In questo senso il conflitto può, e anzi deve evolvere in un processo di maturazione.
In ogni caso però il conflitto va accompagnato: «Mai dobbiamo comportarci come il sacerdote o il levita della parabola del buon Samaritano che semplicemente passano oltre. Ma come fare? Mi viene in mente — dice il Papa — la storia di un giovane di 22 anni che era in piena crisi depressiva. Non sto parlando di un religioso, ma di un giovane che viveva con sua mamma che era vedova e lavava i panni di famiglie abbienti. Questo giovane non andava più a lavorare e viveva annebbiato dall’alcol. La mamma non poteva far nulla: semplicemente ogni mattina prima di uscire lo guardava con tanta tenerezza. Questo giovane ora è una persona importante: ha superato quella crisi, perché quello sguardo di tenerezza di sua mamma alla fine lo ha scosso. Ecco, bisogna recuperare la tenerezza, anche una tenerezza materna. Pensate alla tenerezza che ha vissuto san Francesco, ad esempio. La tenerezza aiuta a superare i conflitti. Se poi questo non basta, può anche essere il caso di cambiare comunità».
«E vero — ha proseguito Papa Francesco —, a volte siamo molto crudeli. Viviamo la tentazione comune di criticare per soddisfazione personale o per provocare un vantaggio personale. A volte le crisi della fraternità sono dovute a fragilità della personalità, e in questo caso è necessario richiedere l’aiuto di un professionista, di uno psicologo. Non bisogna avere paura di questo; non si deve temere di cadere necessariamente nello psicologismo. Ma mai, mai dobbiamo agire come gestori davanti al conflitto di un fratello. Dobbiamo coinvolgere il cuore».
«La fraternità è qualcosa di molto delicato. Nell’inno dei Primi Vespri della solennità di san Giuseppe del breviario argentino si chiede al Santo di custodire la Chiesa con ternura de eucaristia, “tenerezza eucaristica”[14]. Ecco, così bisogna trattare i fratelli: con tenerezza eucaristica. Bisogna accarezzare il conflitto. Mi viene in mente quando Paolo VI ricevette la lettera di un bambino con molti disegni. Paolo VI disse che, su un tavolo dove arrivano solo lettere con problemi, l’arrivo di una lettera così gli fece tanto bene. La tenerezza ci fa bene. La tenerezza eucaristica non copre il conflitto, ma aiuta ad affrontarlo da uomini».
Le mutue relazioni tra religiosi e Chiese locali
A questo punto i Superiori Generali hanno posto al Papa alcune domande circa l’inserimento delle comunità religiose nelle Chiese locali e circa il rapporto con i vescovi: come possono essere rispettati e promossi per il bene della Chiesa del luogo i carismi dei diversi Istituti? Come promuovere la comunione tra i distinti carismi e le forme di vita cristiana per la maggiore crescita di tutti e uno sviluppo migliore della missione?
Papa Francesco risponde che, ormai da molti anni, vi è la richiesta di rivedere i criteri direttivi circa i rapporti tra i vescovi e i religiosi nella Chiesa che sono stati emanati nel 1978 dalla Congregazione per i religiosi e dalla Congregazione per i vescovi (Mutuae relationes). Il Papa è dell’avviso che il tempo sia maturo perché «quel documento risponde a un certo tempo e non è più attuale. I carismi dei vari Istituti vanno rispettati e promossi perché c’è bisogno di essi nelle diocesi. Conosco per esperienza — ha proseguito — i problemi che possono nascere tra il vescovo e le comunità religiose». Ad esempio: «se decidono un giorno di lasciare un’opera per mancanza di religiosi, il vescovo si ritrova spesso improvvisamente con la patata bollente nelle mani. Io ho avuto esperienze difficili in questo senso. Mi veniva comunicato che l’opera stava per essere abbandonata e io non sapevo cosa fare. Una volta mi hanno addirittura avvisato a cose fatte. Ma potrei invece raccontare altri episodi molto positivi. Insomma: conosco i problemi, ma so anche che non sempre i vescovi conoscono i carismi e le opere dei religiosi. Noi vescovi dobbiamo capire che le persone consacrate non sono materiale di aiuto, ma sono carismi che arricchiscono le diocesi. L’inserimento diocesano delle comunità religiose è importante. Bisogna salvare il dialogo tra vescovo e religiosi per evitare che, non capendo i carismi, li considerino semplicemente come utili strumenti». Perciò il Papa ha affidato alla Congregazione per i religiosi il compito di riprendere la riflessione e di lavorare a una revisione del documento Mutuae relationes.
Le frontiere della missione: emarginazione, cultura ed educazione
Le ultime domande hanno riguardato le frontiere della missione dei consacrati. Il Papa ha spesso parlato di «uscire», di «andare», di «frontiere». I Superiori Generali dunque hanno chiesto quali siano queste frontiere verso le quali uscire: «come vede la presenza della vita consacrata nelle realtà di esclusione che ci sono nel nostro mondo? Molti Istituti svolgono un compito educativo: come vede questo genere di servizio? Che direbbe a religiosi che sono impegnati in questo campo?».
Il Papa innanzitutto afferma che certamente rimangono le frontiere geografiche, e che bisogna essere disponibili alla mobilità. Ma ci sono anche le frontiere simboliche, le quali non sono prefissate e non sono uguali per tutti, ma «vanno cercate sulla base dei carismi di ciascun Istituto. Dunque si deve discernere tutto secondo il carisma proprio. Certamente le realtà di esclusione rimangono le priorità più significative, ma richiedono discernimento. Il primo criterio è quello di inviare in queste situazioni di esclusione e di emarginazione le persone migliori, più dotate. Sono situazioni di maggiore rischio che richiedono coraggio e molta preghiera. Ed è necessario che il superiore accompagni le persone impegnate in questo lavoro». C’è sempre il rischio, ha ricordato il Papa, di lasciarsi prendere dall’entusiasmo, di mandare in frontiere di emarginazione religiosi di buona volontà, ma non adatti a quelle situazioni. Non bisogna prendere decisioni nel campo dell’emarginazione senza assicurare adeguato discernimento e accompagnamento.
Accanto a questa sfida dell’emarginazione il Papa ha citato altre due sfide sempre importanti: quella culturale e quella educativa nelle scuole e nelle università. In questo settore la vita consacrata può offrire un enorme servizio. Ha ricordato: «Quando i Padri de La Civiltà Cattolica sono venuti a trovarmi, io ho parlato loro delle frontiere del pensiero, del pensiero unico e debole. A loro ho raccomandato queste frontiere. Così come il Rettor maggiore dei Salesiani sa che tutto per loro ha avuto inizio sulla base di un sogno educativo di frontiera, il sogno di don Bosco che ha spinto i suoi salesiani fino alle periferie geografiche della Patagonia. Potremmo fare altri esempi».
Per il Papa, i pilastri dell’educazione sono: «trasmettere conoscenza, trasmettere modi di fare, trasmettere valori. Attraverso questi si trasmette la fede. L’educatore deve essere all’altezza delle persone che educa, deve interrogarsi su come annunciare Gesù Cristo a una generazione che cambia». Quindi ha insistito: «Il compito educativo oggi è una missione chiave, chiave, chiave!». E ha citato alcune sue esperienze a Buenos Aires sulla preparazione che si richiede per accogliere in contesti educativi bambini, ragazzi e giovani che vivono situazioni complesse, specialmente in famiglia: «Ricordo il caso di una bambina molto triste che alla fine confidò alla maestra il motivo del suo stato d’animo: “la fidanzata di mia madre non mi vuol bene”. La percentuale di ragazzi che studiano nelle scuole e che hanno i genitori separati è elevatissima. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Come annunciare Cristo a questi ragazzi e ragazze? Come annunciare Cristo a una generazione che cambia? Bisogna stare attenti a non somministrare ad essi un vaccino contro la fede»[15].
* * *
Alla fine delle tre ore, intorno alle 12,30, il Papa si dice dispiaciuto di dover chiudere questa conversazione: «lasciamo altre domande per la prossima volta», dice sorridendo. Confida che lo attende il dentista. Prima di salutare i Superiori Generali presenti, ha un annuncio da fare: il 2015 sarà un anno dedicato alla vita consacrata. Queste parole sono accolte con un lungo applauso. Il Pontefice guarda sorridendo il Prefetto e il Segretario della Congregazione per i religiosi e gli Istituti secolari dicendo: «è colpa loro, è una loro proposta: quando questi due si incontrano, sono pericolosi», provocando così l’ilarità di tutta l’assemblea.
Lasciando l’aula, ha affermato: «Vi ringrazio, vi ringrazio per questo atto di fede che avete fatto in questa riunione. Grazie, per quello che fate, per il vostro spirito di fede e la ricerca del servizio. Grazie per la vostra testimonianza, per i martiri che continuamente date alla Chiesa, e anche per le umiliazioni per le quali dovete passare: è il cammino della Croce. Grazie di cuore».
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[1] A cura di Antonio Spadaro S.I., pubblicato in La Civiltà Cattolica 20141 3-17 I 3925 (4 gennaio 2014).
[2] L’Assemblea si è tenuta dal 27 al 29 novembre presso il Salesianum di Roma. Si è trattato di un incontro basato su tre esperienze che hanno guidato le riflessioni successive. Il p. Janson Hervé, dei Piccoli Fratelli di Gesù, ha parlato delle «luci che mi aiutano a vivere questo servizio dei miei fratelli e di come Papa Francesco conforti la mia speranza». Fr. Mauro Jòhri, cappuccino, ha spiegato «come Papa Francesco mi sta ispirando e sfidando nel servizio di animazione del mio Ordine». Infine, il p. Hainz Kuliike, della Società del Verbo Divino, si è soffermato sulla «leadership all’interno di una Congregazione religiosa missionaria in un contesto internazionale e interculturale alla luce dell’esempio di Papa Francesco».
[3] Ricordiamo che J. M. Bergoglio, da provinciale dei gesuiti argentini, aveva pubblicato Meditaciones para religiosos, San Miguel, Ediciones Diego De Torres, 1982, un libro che raccoglie una serie di riflessioni date a confratelli che risultano essere illuminanti per comprendere alcuni temi chiave che Bergoglio svilupperà successivamente.
[4] Benedetto XVI, Omelia nella Santa Messa di inaugurazione della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi presso il Santuario di Aparecida (13 maggio 2007). Papa Francesco ha più volte ripreso questo concetto del suo predecessore. Lo ha fatto nell’omelia di Santa Marta il 1° ottobre, aggiungendo: «Quando la gente, i popoli vedono questa testimonianza di umiltà, di mitezza, di mansuetudine, sentono il bisogno eli cui parla il profeta Zaccaria: “Vogliamo venire con voi!” La gente sente quel bisogno davanti alla testimonianza della carità, di questa carità umile, senza prepotenza, non sufficiente, umile, che adora e serve». Ritroviamo la citazione di Benedetto XVI nel discorso di Papa Francesco del 4 ottobre durante la visita alla cattedrale di San Rufino ad Assisi, e anche nell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium (n. 14).
[5] Cfr J. M. Bergoglio, Nel cuore dell’uomo. Utopia e impegno, Milano, Bompiani, 2013, 23; Papa Francesco, La mia porta è sempre aperta. Una conversazione con Antonio Spadaro, Milano, Rizzoli, 2013, 86 s.
[6] Papa Francesco ha espresso questa sua convinzione nella sua Evangelii gaudium quando ha scritto: «Il modello non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità» (n. 236).
[7] Papa Francesco ha ben presente questa lettera del padre Pedro Arrupe e l’aveva citata anche nell’intervista alla Civiltà Cattolica, definendola «geniale». Cfr Papa Francesco, La mia porta è sempre aperta..., cit., 117.
[9] L’incomprensione era dovuta al fatto che, nelle loro missioni, i gesuiti cercavano di adeguare l’annuncio del Vangelo alla cultura e ai culti locali. Ma questo aveva preoccupato alcuni e nella Chiesa si erano levate voci contrarie allo spirito di tali atteggiamenti, come se comportassero una contaminazione del messaggio cristiano. Le posizioni profetiche non vennero accettate al tempo, perché superavano la comprensione ordinaria dei fatti.
[10] P. Segundo Llorente (Mansilla Mayor, Leon [Spagna], 18 novembre 1906 - Spokane, Washington [Stati Uniti]v 26 gennaio 1989), gesuita, ha trascorso oltre 40 anni come missionario in Alaska. E stato delegato al Congresso degli Stati Uniti per lo Stato dell’Alaska, di cui è considerato co-fondatore. Fu sepolto in un cimitero indiano a De Smet, Idaho, dove possono essere sepolti soltanto indigeni nativi americani. Quando a 29 anni arriva a Akulurak, la sua prima difficoltà consiste non solo nell’imparare l’eskimo, ma nel parlare di Dio a persone con un modo di pensare radicalmente diverso da quello europeo. Ha scritto 12 libri sulla sua esperienza missionaria.
[11] J. M. Bergoglio, Discorso all’incontro con i vescovi responsabili del Consiglio Episcopale Latinoamericano (Celami, in occasione della riunione generale di coordinamento presso il Centro Studi di Sumaré, Rio de Janeiro, 28 luglio 2013.
[12] Giovanni (Jan) Berchmans (Diest [Belgio], 12 marzo 1599 - Roma, 13 agosto 1621) fu un gesuita, canonizzato da papa Leone XIII nel 1888. Il 24 settembre 1618 emise la prima professione religiosa da gesuita e nel 1619 si trasferì a Roma per completare gli studi filosofici presso il Collegio Romano, dove, ammalatosi, morì dopo solo due anni, il 13 agosto 1621. Fedele ai suoi motti preferiti: Age quod agis (Fai bene quanto stai facendo) e Maximi facere minima (Rendi il massimo con il minimo), riuscì a eseguire le cose ordinarie in modo straordinario e a diventare il santo della vita comune.
[13] Cfr J. M. Bergoglio, È l’amore che apre gli occhi, Milano, Rizzoli, 2013,
[14] Guarda a la Iglesia de quien fue figura la inmaculada y maternal Maria; guardala intacta, firme y con ternura de eucaristia.
[15] Papa Francesco si è soffermato a lungo, in passato, sui temi dell’educazione in vari interventi compiuti da cardinale arcivescovo di Buenos Aires. Segnaliamo soprattutto: Scegliere la vita. Proposte per tempi difficili, Milano, Bompiani, 2013.
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