"Solo Dio, solo dal cuore trafitto della Sposa di Gesù Cristo, dalla Chiesa, uscirà la grande parola della redenzione civile e sociale: e tutti l’intenderanno, e tutti l’ascolteranno e tutti".
Lunedì, 29 Maggio 2023
6 Marzo 2015
PRIMA MESSA IN ITALIANO E RIFORMA LITURGICA: intervista a Mons. Francesco Pio Tamburrino.

PRIMA MESSA IN LINGUA PARLATA E RIFORMA LITURGICA AL SERVIZIO DEL RINNOVAMENTO DELLA VITA CRISTIANA.

Intervista a Mons. Francesco Pio Tamburrino.

 

 

 

 

Francesco Pio Tamburrino è monaco benedettino, già professore del Pontificio Ateneo Sant'Anselmo di Roma, segretario della Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei sacramenti dal 1999, arcivescovo di Foggia-Bovino dal 2003 ed emerito dal 2014. Nel contesto del recente Convegno di pastorale liturgica nel 50° della prima Messa in italiano, organizzato dall’Opera Don Orione a Roma, il 27 febbraio scorso, ha risposto ad alcune domande.

 

Eccellenza, qual è il suo ricordo del 7 marzo 1965?

In quel periodo ero diacono e studente al Pontificio Ateneo di S. Anselmo sull’Aventino. La Pontificia Facoltà di Liturgia, animata da grandi studiosi di liturgia e collaboratori nella stesura della Costituzione Sacrosanctum Concilium, in quei mesi era uno dei luoghi scelti per sperimentare in anteprima le innovazioni rituali introdotte nella riforma liturgica in atto. Si attendevano segni sicuri che la riforma sarebbe stata attuata. La Messa di Paolo VI nella parrocchia romana di Ognissanti ce ne diede conferma.

 

Perché fu importante quella prima Messa in italiano celebrata da Paolo VI ad Ognisanti?

Quel gesto squisitamente pastorale del Papa per noi giovani significava che le resistenze dei fautori della liturgia in lingua latina non avrebbero bloccato lo sforzo di avvicinare la liturgia al popolo, rendendola comprensibile e capace di produrre frutti straordinari per la vita cristiana.

 

L’uso della lingua parlata e la celebrazione verso il popolo furono due cambi che più impressionarono a livello popolare. Perché furono fatte queste scelte?

L’introduzione della lingua viva nella liturgia è stata decisa dal Concilio. La Costituzione Sacrosanctum Concilium al n. 36 prevedeva che ne sarebbe derivata una grande utilità per il popolo. L’esperienza di cinquant’anni conferma pienamente quella previsione. Attualmente sono autorizzate oltre 350 lingue nel mondo, ma sarebbe necessario andare incontro a molti gruppi etnici con centinaia di migliaia di membri, specialmente in America Latina e in Africa, che non parlano e non comunicano in lingue diverse dalla propria.

La posizione del celebrante fu maturata e decisa durante il Concilio. Essa venne proposta dalla Commissione preparatoria. La “Declaratio” dell’articolo 104 dello schema della Sacrosanctrum Concilium specificava: ”L’altare maggiore sia eretto nel mezzo, tra il presbiterio e il popolo, cioè nel mezzo dell’assemblea”. L’Istruzione Inter oecumenici del 16 settembre 1964 specificò: “È bene che l’altare maggiore sia staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo. Nell’edificio sacro sia posto in luogo tale da risultare come il centro ideale a cui spontaneamente converga l’attenzione di tutta l’assemblea” (n. 91).

Nelle polemiche che sono nate in seguito si sono voluti contrapporre la direzione degli oranti verso l’abside e quella verso l’assemblea. Basterebbe rilevare che gli sguardi degli oranti non devono dirigersi gli uni verso gli altri, bensì convergere su quel centro, che è segno della presenza di Cristo, sacerdote e vittima, mensa del sacrificio e del convito pasquale. Lo stesso canone romano ne dà conferma, quando parla dei fedeli “circumstantes”, che stanno intorno. “La mensa – faceva osservare san Giovanni Crisostomo – è posta al centro, come una sorgente, perché le greggi accorrano da tutte le parti ad essa e si dissetino alle sue acque salutari” (Catechesi 3, 26).

 

Quali furono i principali scopi della riforma liturgica?

Lo scopo della riforma liturgica era di ricondurre “i testi e i riti ad esprimere più chiaramente le sacre realtà di cui essi sono i segni, in una forma tale che, per quanto possibile, il popolo cristiano possa facilmente intenderli e ad essi partecipare con una celebrazione piena,  attiva e comunitaria” (Sacrosanctum Concilium, 21).

Tale riforma rispondeva a una speranza generale di tutta la Chiesa. Infatti lo spirito liturgico si era diffuso sempre più in quasi tutti gli ambienti, insieme al desiderio di partecipare attivamente ai santi misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa, e all’aspirazione di ascoltare la parola di Dio in misura più abbondante. La riforma della liturgia era la risposta alle necessità e alle aspettative di rinnovamento della vita cristiana, maturate dal movimento biblico, dal movimento ecumenico, dallo slancio missionario e dal desiderio di una spiritualità solidamente fondata sui Padri della Chiesa. Il rinnovamento della liturgia contribuì in maniera sostanziale al rinnovamento globale di tutta la Chiesa.

 

Cosa rimane da fare per un’attuazione piena della riforma liturgica?

Se la riforma liturgica non ha prodotto tutti quei suoi frutti che era lecito attendersi, ciò è dovuto alla mancanza  di comprensione dello spirito e dei fini della riforma stessa sia da parte dei fedeli, sia degli operatori pastorali. Ai fedeli è mancata una necessaria iniziazione al linguaggio proprio della liturgia, ossia ai riti, ai simboli, segni e struttura propria della eucologia. Gli stessi ministri di culto sembrano, talvolta, mancare di una appropriata formazione alla spiritualità liturgica. Il continuo progresso delle conoscenze critiche nei rapporti tra liturgia e le altre discipline teologiche impone uno studio di tutti gli aspetti del culto cristiano, compresi gli apporti delle scienze antropologiche e della comunicazione.

I primi  ad avere coscienza di un continuo approfondimento della formazione liturgica devono essere gli stessi ministri ordinati, secondo le esigenze del proprio ruolo. La presidenza delle assemblee liturgiche richiede di apprendere e affinare l’arte del celebrare, al fine di rendere tali assemblee vere celebrazioni, in cui tutti partecipano secondo il proprio ruolo e siano consapevoli del mistero che si compie. Spetta in primo luogo a chi preside rendere ogni celebrazione una esperienza di fede che si comunica, di speranza che si conferma, di carità che si diffonde.

Un grande aiuto alle comunità parrocchiali per diffondere lo spirito della liturgia può venire dalla costituzione di un gruppo liturgico, di cui faranno parte i ministranti, i cantori, gli accoliti, i ministri straordinari della Comunione, gli animatori dell’assemblea, i lettori. Costoro si incontreranno non solo per preparare le celebrazioni, definire i ruoli di ciascuno, i percorsi processionali, ma anche e soprattutto per formare un gruppo di approfondimento della spiritualità e del linguaggio proprio della liturgia.

 

Ci sono state reazioni diverse alla riforma liturgica: abusi di creatività soggettiva e irrigidimenti sulle forme del passato. Quali hanno più ostacolato la vita liturgica del popolo di Dio?

La liturgia può essere paragonata ad una cartina di tornasole, che rivela la qualità di tutto ciò che sorregge l’atto del culto: anzitutto la fede del cristiano, ma anche l’ecclesiologia, la capacità di vivere e esprimere la comunione, l’accoglienza e l’apertura verso il mondo. La posizione vistosa di chi rifiuta la riforma liturgica per rifugiarsi nel passato nega ad un concilio ecumenico e all’autorità della Sede Apostolica la facoltà di promuovere la revisione e la riforma della liturgia. Si verrebbe a porre un diaframma invalicabile tra la tradizione e il progresso. Purtroppo, un tale atteggiamento non riguarda soltanto la liturgia, ma include nel rifiuto tutta l’azione rinnovatrice del Vaticano II circa la Chiesa, il dialogo ecumenico, la diffusione della Bibbia, l’apertura verso il mondo contemporaneo. Da costoro si propone la “riforma della riforma”, ossia la smentita non soltanto del movimento liturgico, ma la stessa evidenza della “questione liturgica”, come se l’uno e l’altra fossero una invenzione “modernista”, dimenticando che la novità è un elemento interno alla liturgia e che una liturgia tradizionalistica e, di per sé, un modo di collocarsi al di fuori della tradizione vivente della Chiesa.

 È vero anche che la liturgia non è opera delle nostre mani. Non è tollerabile – come denunciava Giovanni Paolo II alcuni anni fa -  che dei singoli o dei gruppi promuovano innovazioni fantasiose, allontanandosi dalle norme date dall’autorità della Sede Apostolica o dai vescovi, perturbando così l’unità della Chiesa e la pietà dei fedeli, urtando talvolta addirittura contro i dati della fede.

 

Ci dice una parola sulla terza edizione del Messale Romano?

Ho avuto l’occasione di lavorare sia per la redazione del testo latino della III edizione del Messale Romano, approvato e promulgato dal papa Giovanni Paolo II, sia per la lunga e impegnativa opera di traduzione in italiano, curata dagli organismi per la liturgia della Conferenza Episcopale Italiana. Posso attestare che la traduzione in italiano è stata, per quanto possibile, aderente al testo latino; si è cercato di conservare i concetti e le immagini dell’originale, rendendoli in un italiano scorrevole e adatto alla proclamazione comunitaria.

Questa nuova edizione, che vedrà la luce tra qualche mese anche in traduzione italiana, ha riordinato tutti i testi secondo criteri più logici, ha rivisto le collette sulle formule contenute negli antichi sacramentari, ha aggiunto numerose celebrazioni di santi, canonizzati negli ultimi decenni e stabiliti  come memorie per la Chiesa universale, sono stati ridistribuiti i comuni dei santi e riordinate le messe per i defunti.

Tra le novità più rilevanti della III edizione è da sottolineare l’allargamento delle facoltà di amministrare ai fedeli la comunione sotto le due specie, lasciando alla competenza dell’Ordinario diocesano di poter emanare norme particolari per la propria diocesi. Praticamente, le disposizioni contenute nel nuovo Messale affidano ai Vescovi e, in subordine, ai parroci la facoltà di distribuire la comunione sotto le due specie. Questo comporta che i pastori, con una appropriata catechesi al popolo cristiano e con le disposizioni pratiche sul rito della comunione, promuovano la comunione sotto le due specie che esprime con maggior pienezza la sua forma di segno. In essa risulta infatti più evidente il segno del banchetto eucaristico, e si esprime più chiaramente la volontà divina di ratificare la nuova ed eterna alleanza nel sangue del Signore.

C’è da augurarsi che la pubblicazione della III edizione del Messale in italiano faccia entrare nella pratica pastorale  e nella spiritualità vissuta quello che fu una consegna precisa del Signore agli apostoli e alla sua Chiesa: “Prendete e bevetene tutti”!

 

DFP

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