LA MISSIONARIETÀ NELLA VITA CRISTIANA
Achille Morabito
Palermo, 22 novembre 2014
Convegno missionario area Roma
Introduzione
Ogni tanto si alza qualche voce – anche in campo cattolico – che afferma che l’attività missionaria della Chiesa non ha più senso, invocando, ad esempio, il rispetto delle culture e tradizioni proprie dei popoli.
Già Giovanni Paolo II, nell’enciclica Redemptoris missio (7 dicembre 1990), dopo aver esordito nel primo capitolo con queste parole - “Il compito fondamentale della Chiesa di tutte le epoche e, in modo particolare, della nostra - ricordavo nella prima enciclica programmatica - è di dirigere lo sguardo dell'uomo, di indirizzare la coscienza e l'esperienza di tutta l'umanità verso il mistero di Cristo». La missione universale della Chiesa nasce dalla fede in Gesù Cristo, come si dichiara nella professione della fede trinitaria: «Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli... Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito santo si è incarnato nel seno della vergine Maria e si è fatto uomo». Nell'evento della redenzione è la salvezza di tutti, «perché ognuno è stato compreso nel mistero della redenzione e con ognuno Cristo si è unito, per sempre, attraverso questo mistero». Soltanto nella fede si comprende e si fonda la missione” -, dopo aver appunto esordito con queste affermazioni, scriveva: “Eppure, anche a causa dei cambiamenti moderni e del diffondersi di nuove idee teologiche alcuni si chiedono: È ancora attuale la missione tra i non cristiani? Non è forse sostituita dal dialogo inter-religioso? Non è un suo obiettivo sufficiente la promozione umana? Il rispetto della coscienza e della libertà non esclude ogni proposta di conversione? Non ci si può salvare in qualsiasi religione? Perché quindi la missione?” [1] .
Ed ecco la risposta: “Perché a noi, come a san Paolo, «è stata concessa la grazia di annunziare ai pagani le imperscrutabili ricchezze di Cristo» (Ef 3,8). La novità di vita in lui è la «buona novella» per l'uomo di tutti i tempi: a essa tutti gli uomini sono chiamati e destinati. Tutti di fatto la cercano, anche se a volte in modo confuso, e hanno il diritto di conoscere il valore di tale dono e di accedervi. La Chiesa e, in essa, ogni cristiano non può nascondere né conservare per sé questa novità e ricchezza, ricevuta dalla bontà divina per esser comunicata a tutti gli uomini. Ecco perché la missione, oltre che dal mandato formale del Signore, deriva dall'esigenza profonda della vita di Dio in noi. Coloro che sono incorporati nella Chiesa cattolica devono sentirsi dei privilegiati, e per ciò stesso maggiormente impegnati a testimoniare la fede e la vita cristiana come servizio ai fratelli e doverosa risposta a Dio, memori che «la loro eccellente condizione non è da ascrivere ai loro meriti, ma a una speciale grazia di Cristo »” [2].
“La dolce e confortante gioia di evangelizzare”
Dopo ventiquattro anni, gli fa eco Papa Francesco, che nella Evangelii gaudium, afferma: “Tutti hanno il diritto di ricevere il Vangelo. I cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile. La Chiesa non cresce per proselitismo ma «per attrazione»” [3]. E, subito dopo, nel n. 15 della Evangelii gaudium, richiama per tre volte la Redemptoris missio e il Documento di Aparecida (31 maggio 2007): “Giovanni Paolo II ci ha invitato a riconoscere che «bisogna, tuttavia, non perdere la tensione per l’annunzio» a coloro che stanno lontani da Cristo, «perché questo è il compito primo della Chiesa». L’attività missionaria «rappresenta, ancor oggi, la massima sfida per la Chiesa» e «la causa missionaria deve essere la prima». Che cosa succederebbe se prendessimo realmente sul serio queste parole? Semplicemente riconosceremmo che l’azione missionaria è il paradigma di ogni opera della Chiesa. In questa linea, i Vescovi latinoamericani hanno affermato che «non possiamo più rimanere tranquilli, in attesa passiva, dentro le nostre chiese» e che è necessario passare «da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale decisamente missionaria»” [4].
Il Magistero è tornato più volte su questo tema anche negli anni passati. La magna charta resta l’ esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI (8 dicembre 1975) [5]. Non è un caso che Papa Bergoglio la citi spesso, anzi – a nostro parere – è una delle «chiavi di lettura» di questo pontificato (da notare, tra l’altro, la vicinanza dei titoli delle due esortazioni apostoliche: Evangelii nuntiandi ed Evangelii gaudium). “La dolce e confortante gioia di evangelizzare”, che è anche il titolo dei numeri 9-13 della Evangelii gaudium (nn. 9-13), è una frase ripresa dal n. 80 della Evangelii nuntiandi.
In questo numero, che è l’ultimo prima della conclusione, Papa Montini rispondeva così a chi riteneva l’azione dell’evangelizzazione “una violenza alla libertà religiosa”: “Avviene così che si sente dire troppo spesso, sotto diverse forme: imporre una verità, sia pure quella del Vangelo, imporre una via, sia pure quella della salvezza, non può essere che una violenza alla libertà religiosa… Sarebbe certo un errore imporre qualcosa alla coscienza dei nostri fratelli. Ma proporre a questa coscienza la verità evangelica e la salvezza in Gesù Cristo con piena chiarezza e nel rispetto assoluto delle libere opzioni che essa farà - senza «spinte coercitive o sollecitazioni disoneste o stimoli meno retti» [il richiamo è alla Dichiarazione del Concilio Dignitatis Humanae] - lungi dall'essere un attentato alla libertà religiosa, è un omaggio a questa libertà, alla quale è offerta la scelta di una via, che gli stessi non credenti stimano nobile ed esaltante. È dunque un crimine contro la libertà altrui proclamare nella gioia una Buona Novella che si è appresa per misericordia del Signore? E perché solo la menzogna e l'errore, la degradazione e la pornografia avrebbero il diritto di essere proposti e spesso, purtroppo , imposti dalla propaganda distruttiva dei mass media, dalla tolleranza delle leggi, dalla timidezza dei buoni e dalla temerità dei cattivi? Questo modo rispettoso di proporre il Cristo e il suo Regno, più che un diritto, è un dovere dell'evangelizzatore. Ed è parimente un diritto degli uomini suoi fratelli di ricevere da lui l'annuncio della Buona Novella della salvezza. Questa salvezza Dio la può compiere in chi egli vuole attraverso vie straordinarie che solo lui conosce [il richiamo è al Decreto del Concilio sull’attività missionaria della Chiesa Ad gentes]. Peraltro se il Figlio è venuto, ciò è stato precisamente per rivelarci, mediante la sua parola e la sua vita, i sentieri ordinari della salvezza. E ci ha ordinato di trasmettere agli altri questa rivelazione con la sua stessa autorità. Non sarà inutile che ciascun cristiano e ciascun evangelizzatore approfondisca nella preghiera questo pensiero: gli uomini potranno salvarsi anche per altri sentieri, grazie alla misericordia di Dio, benché noi non annunziamo loro il Vangelo; ma potremo noi salvarci se, per negligenza, per paura, per vergogna - ciò che S. Paolo chiamava «arrossire del Vangelo» - o in conseguenza di idee false, trascuriamo di annunziarlo? Perché questo sarebbe allora tradire la chiamata di Dio che, per bocca dei ministri del Vangelo, vuole far germinare la semente; dipenderà da noi che questa diventi un albero e produca tutto il suo frutto. Conserviamo dunque il fervore dello spirito. Conserviamo la dolce e confortante gioia d'evangelizzare, anche quando occorre seminare nelle lacrime… Sia questa la grande gioia del1e nostre vite impegnate. Possa il mondo del nostro tempo, che cerca ora nell'angoscia, ora nella speranza, ricevere la Buona Novella non da evangelizzatori tristi e scoraggiati, impazienti e ansiosi, ma da ministri del Vangelo, la cui vita irradii fervore, che abbiano per primi ricevuto in loro la gioia del Cristo, e accettino di mettere in gioco la propria vita affinché il Regno sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo” [6].
Ricordiamo, a mo’ di aneddoto, che il futuro Papa Francesco – nelle sedute («congregazioni generali») che hanno preceduto il Conclave – sviluppò il suo intervento in quattro punti. La rivista dell’arcidiocesi dell’Avana Palabra Nueva, diretta da Orlando Marquez, ha pubblicato una trascrizione del manoscritto consegnato dal Cardinale Jorge Mario Bergoglio al Cardinale Jaime Ortega
Il testo riporta l’intervento del futuro papa Francesco nella trascrizione da lui stesso compilata – ovviamente in spagnolo – nel corso dell’intervento svolto nella congregazione generale prima del Conclave.
La dolce e confortante gioia di evangelizzare
Si è fatto riferimento alla evangelizzazione. È la ragione per la Chiesa. “Conserviamo la dolce e confortante gioia di evangelizzare, anche quando occorre [...] sia annunziato e la Chiesa sia impiantata nel cuore del mondo» (Paolo VI). È lo stesso Gesù Cristo che, dal di dentro, ci spinge.
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Evangelizzare suppone zelo apostolico. Evangelizzare suppone nella Chiesa la parresìa (franchezza!]) di sé stessa. La Chiesa è chiamata ad uscire da se stessa e andare nelle periferie, non solo geografiche, ma anche nelle periferie esistenziali: dove alberga il mistero del peccato, il dolore, l’ingiustizia, l’ ignoranza, dove c’è il disprezzo dei religiosi, del pensiero, e dove vi sono tutte le miserie.
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Quando la Chiesa non esce per evangelizzare, diventa auto-referenziale e si ammala. I mali che, nel tempo, colpiscono le istituzioni ecclesiastiche sono l’auto-referenzialità e una specie di narcisismo teologico. La Chiesa autoreferenziale pretende di tenere Cristo dentro di sé e non lo fa uscire.
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Quando la Chiesa è auto-referenziale, crede involontariamente di avere una luce propria. Non è più la certezza di mirare il mysterium lunae, invece va verso un male tanto grave noto come mondanità spirituale (secondo De Lubac, è il peggior male che possa capitare alla Chiesa). La Chiesa vive per dare gloria degli uni agli altri. In parole povere ci sono due immagini della Chiesa: la Chiesa evangelizzatrice che diffonde “Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans” e la Chiesa mondana che vive in sé e per sé stessa. Questa analisi dovrebbe far luce sui possibili cambiamenti e sulle riforme che devono essere fatte per la salvezza delle anime.
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[Il quarto punto riguardava il futuro Papa]. Pensando al prossimo Papa, c’è bisogno di un uomo che dalla contemplazione e dall’adorazione di Gesù Cristo aiuti la Chiesa a uscire da se stessa verso la periferia esistenziale dell’umanità, in modo da essere madre feconda della “dolce e confortante gioia di evangelizzare”.
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“Euntes ergo…” (Mt 28,19)
Finora abbiamo fermato la nostra attenzione sulle dichiarazioni del Magistero. Ma ciò che il Magistero propone ha valore in quanto è fondato sulla Sacra Scrittura. Ora vediamo un po’ i testi più significativi che riguardano il nostro tema.
Viene spontaneo pensare alle «finali» dei Vangeli, che hanno proprio questo in comune. Se gli evangelisti hanno chiuso i rispettivi scritti con questo «invio alla missione» di Gesù, vuol dire che nelle comunità primitive il tema era particolarmente caro e conosciuto.
Cominciamo dalla finale di Matteo: “Andate dunque (euntes ergo) e ammaestrate (docete) tutte le nazioni, battezzandole (baptizantes) nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi (ego vobiscum sum) tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,19-20). Il contesto è l’apparizione in Galilea “sul monte che Gesù aveva loro fissato” (Mt 28,16). “In Matteo l'accento missionario è posto sulla fondazione della Chiesa e sul suo insegnamento; (Mt 28,19; 16,18) in lui, dunque, il mandato evidenzia che la proclamazione del Vangelo dev'essere completata da una specifica catechesi di ordine ecclesiale e sacramentale” [7].
La finale di Marco, come si sa, pone dei problemi dal punto di vista della critica testuale. Di questo problema ci siamo interessati proprio sul Don Orione oggi di settembre/ottobre scorso. Leggiamo in Mc 16,14-20: “Alla fine apparve agli undici, mentre stavano a mensa, e li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato. Gesù disse loro: «Andate in tutto il mondo (euntes in mundum universum) e predicate il vangelo ad ogni creatura (predicate [kerýxate] evangelium omni creaturae). Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato. E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno». Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio. Allora essi partirono e predicarono dappertutto (illi autem profecti praedicaverunt [ekéryxan] ubique), mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l'accompagnavano”. In breve, “Marco presenta la missione come proclamazione, o kérygma: «Proclamate il Vangelo» (Mc 16,15). Scopo dell'evangelista è di condurre i lettori a ripetere la confessione di Pietro: «Tu sei il Cristo» (Mc 8,29) e a dire, come il centurione romano dinanzi a Gesù morto in croce: «Veramente quest'uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39)” [8].
La finale di Luca sembra non avere l’invito ad «andare, uscire, annunciare». Infatti leggiamo: “Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo. Ed essi, dopo averlo adorato, tornarono a Gerusalemme con grande gioia; e stavano sempre nel tempio lodando Dio” (Lc 24,50-53). Poco prima, però, nelle ultime istruzioni agli apostoli, Gesù aveva detto: “Allora aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture e disse: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati (et praedicari – kerychthénai [aoristo infinito passivo]) a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto» (Lc 24,45-49). Questi testi, però, vanno letti all’interno di tutta l’ opera lucana; vanno cioè letti con gli inizi degli Atti degli Apostoli, dove Gesù – “mentre si trovava a tavola con essi” (At 1,4) – dice agli Apostoli: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra (usque ad ultimum terrae)” (At 1,8). E così il vangelo lucano che si era chiuso in Gerusalemme, da Gerusalemme riparte “fino agli estremi confini della terra”. Non a caso, gli Atti degli Apostoli sono il testo della missione per eccellenza! Basti pensare ai viaggi di Paolo. E così in Luca abbiamo una parabola che ci conduce da un villaggio sperduto – Nazareth – al cuore dell’Impero, a Roma. Concludendo, “in Luca la missione è presentata come testimonianza (cf. Lc 24,48; At 1,8) che verte soprattutto sulla risurrezione (At 1,22). Il missionario è invitato a credere alla potenza trasformatrice del Vangelo e ad annunziare ciò che Luca illustra bene, cioè la conversione all'amore e alla misericordia di Dio, l'esperienza di una liberazione integrale fino alla radice di ogni male, il peccato” [9].
E Giovanni? “Giovanni è il solo a parlare esplicitamente di «mandato», parola che equivale a «missione» collegando direttamente la missione che Gesù affida ai suoi discepoli con quella che egli stesso ha ricevuto dal Padre: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (Gv 20,21). Gesù dice rivolto al Padre: «Come tu mi hai mandato nel mondo, anch'io li ho mandati nel mondo» (Gv 17,18). Tutto il senso missionario del Vangelo di Giovanni si trova espresso nella «preghiera sacerdotale»: la vita eterna è che «conoscano te, l'unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). Scopo ultimo della missione è di far partecipare della comunione che esiste tra il Padre e il Figlio: i discepoli devono vivere l'unità tra loro, rimanendo nel Padre e nel Figlio, perché il mondo conosca e creda (Gv 17,21). È, questo, un significativo testo missionario, il quale fa capire che si è missionari prima di tutto per ciò che si è come Chiesa che vive profondamente l'unità nell'amore, prima di esserlo per ciò che si dice o si fa” [10].
Da notare che, nel contesto delle apparizioni, entra in scena anche Maria di Magdala: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ (vade) dai miei fratelli e di’ loro… Maria di Magdala andò subito ad annunziare (annuntians – anghéllusa) ai discepoli «ho visto il Signore» e anche ciò che le aveva detto” (20,17-18). Nel capitolo 21 – aggiunto o dall’evangelista stesso o da un suo discepolo – la scena è occupata prevalentemente da Pietro. “La pesca con la rete rappresenta nei sinottici la venuta del regno dei cieli (Mt 13,47s) o la missione degli apostoli (Mt 4,19). Qui essa deve rappresentare anche la missione apostolica diretta da Pietro” [11]. Nella parte finale, scandita dalla triplice domanda di Gesù a Pietro (“mi vuoi bene?”), troviamo due parole chiavi: “Seguimi” (21,19) e “testimonianza” (21,24).
Fu proprio questa parola – “seguimi” – la parola che il cardinale Joseph Ratzinger commentò l’8 aprile 2005, in piazza San Pietro, nella Messa esequiale per Giovanni Paolo II. Vale la pena richiamare qualche passaggio [12].
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"Seguimi" dice il Signore risorto a Pietro, come sua ultima parola a questo discepolo, scelto per pascere le sue pecore. "Seguimi" – questa parola lapidaria di Cristo può essere considerata la chiave per comprendere il messaggio che viene dalla vita del nostro compianto ed amato Papa Giovanni Paolo II…
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Tante volte nelle sue lettere ai sacerdoti e nei suoi libri autobiografici ci ha parlato del suo sacerdozio, al quale fu ordinato il 1° novembre 1946. In questi testi interpreta il suo sacerdozio in particolare a partire da tre parole del Signore. Innanzitutto questa: "Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga" (Gv 15, 16). La seconda parola è: "Il buon pastore offre la vita per le pecore" (Gv 10, 11). E finalmente: "Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore" (Gv 15, 9). In queste tre parole vediamo tutta l’anima del nostro Santo Padre. E’ realmente andato ovunque ed instancabilmente per portare frutto, un frutto che rimane. "Alzatevi, andiamo!", è il titolo del suo penultimo libro. "Alzatevi, andiamo!" – con queste parole ci ha risvegliato da una fede stanca, dal sonno dei discepoli di ieri e di oggi. "Alzatevi, andiamo!" dice anche oggi a noi. Il Santo Padre è stato poi sacerdote fino in fondo, perché ha offerto la sua vita a Dio per le sue pecore e per l’intera famiglia umana, in una donazione quotidiana al servizio della Chiesa e soprattutto nelle difficili prove degli ultimi mesi…
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Il nostro Papa – lo sappiamo tutti – non ha mai voluto salvare la propria vita, tenerla per sé; ha voluto dare se stesso senza riserve, fino all’ultimo momento, per Cristo e così anche per noi. Proprio in tal modo ha potuto sperimentare come tutto quanto aveva consegnato nelle mani del Signore è ritornato in modo nuovo: l’amore alla parola, alla poesia, alle lettere fu una parte essenziale della sua missione pastorale e ha dato nuova freschezza, nuova attualità, nuova attrazione all’annuncio del Vangelo, proprio anche quando esso è segno di contraddizione.
La parola “testimonianza” (martyría) apre e chiude il quarto vangelo (1,7 [13] e 21,24); è termine caro a Giovanni (14 volte nel vangelo [3x in Mc, 1x in Lc, assente in Mt], 5 nelle sue lettere). Stessa scena per il verbo martyréo: 1x in Mt, 1x in Lc, 31x in Gv (e ancora: 6x nella 1 Gv e 4x nella 3 Gv); assente in Mc.
In sintesi, “i quattro Vangeli, dunque, nell'unità fondamentale della stessa missione, attestano un certo pluralismo che riflette esperienze e situazioni diverse nelle prime comunità cristiane. Esso è anche frutto della spinta dinamica dello stesso Spirito; invita a essere attenti ai diversi carismi missionari e alle diverse condizioni ambientali e umane. Tutti gli evangelisti, però, sottolineano che la missione dei discepoli è collaborazione con quella di Cristo: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo. (Mt 28,20) La missione, pertanto, non si fonda sulle capacità umane, ma sulla potenza del Risorto” [14].
“Pescatori di uomini”
Finora ci siamo interessati in particolare alle «finali» dei Vangeli, ma il tema – come si sa – è presente in altre parti. E, visto che abbiamo parlato della «fine», proviamo ad andare agli «inizi», alla «chiamata dei primi discepoli».
Cominciamo da Marco, visto che gli altri due Sinottici gli sono debitori! E in effetti il testo di Mc 1,16-20 ha i suoi paralleli in Mt 4,18-22 e in Lc 5,1-11.
Marco:
“Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono” (Mc 1,16-20).
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Matteo:
“Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: «Seguitemi, vi farò pescatori di uomini». Ed essi subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando oltre, vide altri due fratelli, Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello, che nella barca insieme con Zebedèo, loro padre, riassettavano le reti; e li chiamò. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, lo seguirono” (Mt 4,18-22).
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Luca:
“Un giorno, mentre, levato in piedi, stava presso il lago di Genèsaret e la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio, vide due barche ormeggiate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedutosi, si mise ad ammaestrare le folle dalla barca. Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo (duc in altum) e calate le reti per la pesca». Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci e le reti si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell'altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche al punto che quasi affondavano. Al veder questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore». Grande stupore infatti aveva preso lui e tutti quelli che erano insieme con lui per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini». Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono” (Lc 5,1-11).
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Anche in Giovanni, dopo la testimonianza del Battista, che battezzava “a Betania, al di là del Giordano” (1,28), vengono presentati «i primi discepoli». La scena è arricchita da tanti particolari, a cominciare dall’ora in cui i “due discepoli”, dopo l’invito del Battista, “andarono dunque e videro dove abitava [Gesù] e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio” (1,39). Uno dei due discepoli – ci dice l’evangelista – era “Andrea, fratello di Simon Pietro” (1,40). Andrea “incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)» e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)»” (1,41-42). Il giorno dopo entra in scena Filippo di Betsaida (1,44), che «si trascina dietro» anche Natanaele (probabilmente il Bartolomeo dei Sinottici), la cui reazione non è proprio entusiasmante: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono” (1,46).
Al di là dei problemi esegetici, ai fini del nostro tema è importante notare questa «catena» che collega i primi discepoli: Andrea-Simone (Pietro)-Filippo-Natanaele. Il primo a «condurre» i discepoli da Gesù è il Battista; poi è Andrea che «conduce» da Gesù suo fratello Simone; poi Filippo «incontra» Natanaele…
Nella vita c’è sempre qualcuno che ci indica “ l’Agnello di Dio” (1,36); c’è sempre qualcuno, che attraverso gli «incontri» più impensati, ci conduce da Gesù; c’è sempre qualcuno che condivide quanto ha «trovato». C’è, quindi, un intreccio di «chiamata» (“venite e vedrete” [1,39], “seguimi”: Gesù a Filippo [1,43]), di «sosta» per sperimentare cosa può succedere all’ora x, di «condivisione» dell’esperienza fatta accanto ad altri (“vieni e vedi”: Filippo a Natanaele [1,46]). Chi ci ama “fissa sempre lo sguardo” e ci cambia il nome, donandoci una nuova dignità e una nuova missione (cfr 1,42). È il Maestro che ci incontra sulle strade della vita… Al tempo di Gesù erano i discepoli a scegliere il Rabbì; ora, invece, è Lui che prende l’iniziativa, chiama e invia per essere «segno» dell’incontro di Dio con l’umanità, in Gesù.
Tutto questo Papa Francesco lo traduce così nella lettera inviata a Scalfari (4 settembre 2013): “La verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione!”.
Ritorniamo ai Sinottici, perché vi troviamo indicazioni preziose sulla missione: esigenze, stile, attese, persecuzioni, frutti, conseguenze, ecc.
Questa volta partiamo da Matteo, perché il materiale è raccolto nel secondo discorso, quello cosiddetto «apostolico», che troviamo nel capitolo 10. Contenuto: missione e nomi dei Dodici (10,1-15); persecuzione dei missionari (10,16-25); parlare apertamente e senza timore (10,26-33); Gesù, causa di dissensi (10,34-35); rinnegarsi per seguire Gesù (10,37-39); conclusione (10,40-42). Dando uno sguardo a La Bibbia di Gerusalemme, ci si accorge che i passi paralleli, presenti in Mc e Lc, sono sparsi qua e là, secondo le esigenze di ciascun evangelista.
Da notare che, nella istituzione dei Dodici, è solo Marco che sottolinea: “Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (3,14-15). L’indicazione è molto preziosa: prima si sta col Maestro, poi si va a predicare! Come dire: la missione dipende da quanto si sta con Gesù, non dalle «tecniche» o dai «piani pastorali»! I Sinottici, dunque, ci mettono in guardia: “Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi” (Mt 10,16); “Sarete odiati da tutti a causa del mio nome” (10,22); ma “non li temete… non abbiate paura…” (10,26ss.). Cosa fare? Che dire? “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (10,8). Solo piccoli accenni. Proviamo ora ad attualizzare tutto ciò nella vita cristiana di ogni giorno.
“Andate anche voi nella mia vigna” (Mt 20,4)
Questa parola di Gesù, tratta da una delle parabole di sola tradizione matteana, è l’icona biblica che illumina l’Esortazione apostolica Christifideles laici di Giovanni Paolo II, “su vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo” (30 dicembre 1988). Nelle prime battute il Papa ricorda che “l'appello del Signore Gesù «Andate anche voi nella mia vigna » non cessa di risuonare da quel lontano giorno nel corso della storia: è rivolto a ogni uomo che viene in questo mondo… La chiamata non riguarda soltanto i Pastori, i sacerdoti, i religiosi e le religiose, ma si estende a tutti: anche i fedeli laici sono personalmente chiamati dal Signore, dal quale ricevono una missione per la Chiesa e per il mondo. Lo ricorda S. Gregorio Magno che, predicando al popolo, così commenta la parabola degli operai della vigna: «Guardate al vostro modo di vivere, fratelli carissimi, e verificate se siete già operai del Signore. Ciascuno valuti quello che fa e consideri se lavora nella vigna del Signore»” [15]. E continua: “La voce del Signore risuona certamente nell'intimo dell'essere stesso d'ogni cristiano, che mediante la fede e i sacramenti dell'iniziazione cristiana è configurato a Gesù Cristo, è inserito come membro vivo nella Chiesa ed è soggetto attivo della sua missione di salvezza” [16].
Nella terza parte dell’Esortazione apostolica, dove si parla della corresponsabilità dei fedeli laici nella Chiesa-missione, Giovanni Paolo II, a proposito dell’annuncio del Vangelo, dice: “I fedeli laici, proprio perché membri della Chiesa, hanno la vocazione e la missione di essere annunciatori del Vangelo: per quest'opera sono abilitati e impegnati dai sacramenti dell'iniziazione cristiana e dai doni dello Spirito Santo… Ora è nell' evangelizzazione che si concentra e si dispiega l'intera missione della Chiesa, il cui cammino storico si snoda sotto la grazia e il comando di Gesù Cristo: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16, 15); «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). «Evangelizzare - scrive Paolo VI - è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda»” [17]. E conclude: “Certamente l'imperativo di Gesù: «Andate e predicate il Vangelo» mantiene sempre vivo il suo valore ed è carico di un'urgenza intramontabile. Tuttavia la situazione attuale, non solo del mondo ma anche di tante parti della Chiesa, esige assolutamente che la parola di Cristo riceva un'obbedienza più pronta e generosa. Ogni discepolo è chiamato in prima persona; nessun discepolo può sottrarsi nel dare la sua propria risposta: «Guai a me, se non predicassi il Vangelo!» (1 Cor 9, 16)” [18].
E chi sono gli operai della vigna del Signore? “Secondo la parabola evangelica – leggiamo nel n. 45 dell’Esortazione apostolica – il «padrone di casa» chiama gli operai alla sua vigna nelle diverse ore della giornata: alcuni all'alba, altri verso le nove del mattino, altri ancora verso mezzogiorno e le tre, gli ultimi verso le cinque (cf. Mt 20,1 ss.). Nel commento a questa pagina del Vangelo, San Gregorio Magno interpreta le ore diverse della chiamata rapportandole alle età della vita: «È possibile applicare la diversità delle ore - egli scrive - alle diverse età dell'uomo. Il mattino può certo rappresentare, in questa nostra interpretazione, la fanciullezza. L'ora terza, poi, si può intendere come l'adolescenza: il sole si muove verso l'alto del cielo, cioè cresce l'ardore dell'età. La sesta ora è la giovinezza: il sole sta come nel mezzo del cielo, ossia in quest'età si rafforza la pienezza del vigore. L'anzianità rappresenta l'ora nona, perché come il sole declina dal suo alto asse così quest'età comincia a perdere l'ardore della giovinezza. L'undicesima ora è l'età di quelli molto avanzati negli anni (...). Gli operai sono, dunque, chiamati alla vigna in diverse ore, come per dire che alla vita santa uno è condotto durante la fanciullezza, un altro nella giovinezza, un altro nell'anzianità e un altro nell'età più avanzata». Possiamo riprendere ed estendere il commento di San Gregorio Magno in rapporto alla straordinaria varietà di presenze nella Chiesa, tutte e ciascuna chiamate a lavorare per l'avvento del Regno di Dio secondo la diversità di vocazioni e situazioni, carismi e ministeri. È una varietà legata non solo all'età, ma anche alla differenza di sesso e alla diversità delle doti, come pure alle vocazioni e alle condizioni di vita; è una varietà che rende più viva e concreta la ricchezza della Chiesa” [19].
Allora cosa occorre fare? Occorre “scoprire e vivere la propria vocazione e missione” [20]. In uno dei passaggi più belli dell’Esortazione apostolica, Giovanni Paolo II afferma: “Dio chiama me e manda me come operaio nella sua vigna; chiama me e manda me a lavorare per l'avvento del suo Regno nella storia… Infatti, Dio dall'eternità ha pensato a noi e ci ha amato come persone uniche e irripetibili, chiamando ciascuno di noi con il suo proprio nome, come il buon Pastore che «chiama le sue pecore per nome» (Gv 10, 3). Ma il piano eterno di Dio si rivela a ciascuno di noi solo nello sviluppo storico della nostra vita e delle sue vicende, e pertanto solo gradualmente: in un certo senso, di giorno in giorno. Ora per poter scoprire la concreta volontà del Signore sulla nostra vita sono sempre indispensabili l'ascolto pronto e docile della parola di Dio e della Chiesa, la preghiera filiale e costante, il riferimento a una saggia e amorevole guida spirituale, la lettura nella fede dei doni e dei talenti ricevuti e nello stesso tempo delle diverse situazioni sociali e storiche entro cui si è inseriti” [21].
Conclusione
Nell’Udienza del 10 marzo 2009, parlando di san Bonifacio (680-754), Papa Benedetto XVI aveva detto: “Mi impressiona sempre questo suo zelo ardente per il Vangelo: a quarant'anni esce da una vita monastica bella e fruttuosa, da una vita di monaco e di professore per annunciare il Vangelo ai semplici, ai barbari; a ottant'anni, ancora una volta, va in una zona dove prevede il suo martirio. Paragonando questa sua fede ardente, questo zelo per il Vangelo alla nostra fede così spesso tiepida e burocratizzata, vediamo cosa dobbiamo fare e come rinnovare la nostra fede, per dare in dono al nostro tempo la perla preziosa del Vangelo”.
Per dare un dono, però, prima di tutto bisogna averlo, custodirlo, valorizzarlo…, ma soprattutto viverlo! Ecco perché la prima forma di evangelizzazione è la testimonianza (Redemptoris Missio, 42). “Prima di essere azione, la missione è testimonianza e irradiazione” (RM, 26). Ecco perché “la fede si rafforza donandola!” (RM, 2).
Nella missione, inoltre, bisogna ricordare che il protagonista della missione è lo Spirito Santo. “Il nostro tempo, con l'umanità in movimento e in ricerca, esige un rinnovato impulso nell'attività missionaria della Chiesa. Gli orizzonti e le possibilità della missione si allargano, e noi cristiani siamo sollecitati al coraggio apostolico, fondato sulla fiducia nello Spirito. È lui il protagonista della missione!” (RM, 30).
Concretamente, come si traduce tutto questo? Nella carità! La carità è fonte e criterio della missione (cfr RM, 60). Sono le opere di carità e di promozione umana “che testimoniano l'anima di tutta l'attività missionaria: L'amore, che è e resta il movente della missione, ed è anche «l'unico criterio secondo cui tutto deve essere fatto o non fatto, cambiato o non cambiato. È il principio che deve dirigere ogni azione e il fine a cui essa deve tendere. Quando si agisce con riguardo alla carità o ispirati dalla carità, nulla è disdicevole e tutto è buono» (RM, 60) [22]. Per dirla con Papa Benedetto XVI: “Il programma del cristiano – il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù – è «un cuore che vede»” [23].
In sintesi, “la Chiesa è missionaria per sua natura, poiché il mandato di Cristo non è qualcosa di contingente e di esteriore ma raggiunge il cuore stesso della Chiesa. Ne deriva che tutta la Chiesa e ciascuna Chiesa è inviata alle genti” (RM, 62). Ogni battezzato, pertanto, è chiamato a incarnare nel proprio ambiente che “la gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù” (Evangelii gaudium,1).
[1] Redemptoris missio, 4.
[3] Evangelii gaudium, 14.
[4] Evangelii gaudium, 15.
[5] Alcuni mesi prima, il 9 maggio 1975, Paolo VI aveva pubblicato la prima Esortazione apostolica dedicata alla «gioia», la Gaudete in Domino (titolo preso dalla lettera ai Filippesi 4,4: “Gaudete in Domino semper, iterum dico: gaudete”). Tra i passaggi più significativi ricordiamo: “La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia” (n. I ); “La gioia cristiana suppone un uomo capace di gioie naturali” (n. I); “In Dio stesso tutto è gioia poiché tutto è dono” (conclusione).
[6] Evangelii nuntiandi, 80.
[7] Redemptoris missio, 23.
[11] La Bibbia di Gerusalemme, commento ad locum.
[12] “Seguimi” ricorre 8 volte nell’omelia.
[13] “Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce” (Gv 1,6-7).
[14] Redemptoris missio, 23.
[15] Chrisifideles laici, 2.
[17] Ivi, 33. Per la citazione di Paolo VI, vedi Evangelii nuntiandi, 14.
[20] Ivi, titolo del n. 58
[22] La citazione è di Isacco Della Stella, Sermone 31 (monaco cistercense inglese: 1100-1169).
[23] Deus caritas est, 31.
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